INTELLIGENZA ESISTENZIALE

O SULLA SAPIENZA

Il passaggio alla struttura personale è caratterizzato dal conseguimento del centro, della posizione dalla quale il soggetto psichico può ergersi a persona libera.

Edith Stein

Ormai da molto tempo la scienza afferma- giustamente- che esistono varie forme d’intelligenza.

Nel corso degli anni si è passati infatti dal considerare l’intelligenza solo come espressione delle abilità speculative e logico-matematiche ad ampliare lo spettro della sua presenza.

Ecco allora che sono nati i concetti d’intelligenza cinestetica, pratica, emotiva, sociale etc.

Sono dei costrutti molto affascinanti che dimostrano la varietà e l’estrema potenzialità presente negli esseri umani e permettono anche d’allargare lo sguardo offrendo un antropologia e una pedagogia più raffinata: una persona intelligente non è solo quel qualcuno che sa tante cose o che processa dati velocemente e accuratamente ma anche, e forse specialmente, qualcuno che sa entrare in sintonia con gli altri, che sa compatire e che è in grado di creare contatti sani e creativi.

Tra le varie forme d’intelligenza, dal latino intus + legere (leggere dentro) possiamo trovare quella che abitualmente definisco intelligenza esistenziale.

E’ un abilità di sintesi sulla propria vita, spesso a partire dalle proprie sofferenze.

Sono persone che hanno superato dure prove, che hanno rischiato, che hanno visto il limite proprio o di chi è a loro vicino e che così hanno sviluppato una sapienza di base nella loro personalità che può essere chiamata intelligenza esistenziale.

Hanno guardato, e spesso era inevitabile farlo, dove altri avrebbero distolto lo sguardo.

Hanno sentito e percepito emozioni anche scomode.

Hanno compreso il limite del sopportabile dovendolo superare.

E non si sono piegati a posizioni stabilmente aggressive.

Non sono rimasti nel conflitto con la vita.

Non sono diventati invidiosi.

Hanno guardato al loro dolore e hanno cercato – riuscendoci – di sanare le loro ferite, o quelle che avevano ereditato dal loro ambiente.

Questo insieme di caratteristiche ha generato l’intelligenza esistenziale, la sapienza.

Questo permette loro d’avere un atteggiamento più profondo e paziente.

Sanno aspettare, vedono oltre l’apparire dei comportamenti e delle cose e dinanzi ai loro errori hanno la capacità di riconoscere la loro responsabilità di voler porre rimedio, per quanto possibile.

Persone risolte, che avendo lavorato sulla propria interiorità trovano un equilibrio dinamico con la vita.

Non giudicanti ma capaci d’attirare a sé persone simili e non vampiri emozionali.

Affascinanti per la capacità d’intuire e d’andare oltre al banale.

Amanti del bello e del buono.

L’intelligenza esistenziale – o sapienza -è una risposta, uno stile con cui vivere e un energia che sa diffondersi.

BIBLIOGRAFIA

Danish, S. J., D’Augelli, A. R. (1983). Helping skills II: Life development intervention. New York, NY: Human Sciences

Botvin, G., Griffin, K. (2004). Life skills training: Empirical findings and future directions. Journal of Primary Prevention, 25, 211-23

Deci, E., Ryan, R. (2008). Facilitating optimal motivation and psychological well-being across life’s domains. Canadian Psychology, 49, 14-23.

AMORE SPECULARE

“ Nonostante le brutte esperienze, la parte più profonda degli esseri umani si aspetta sempre che le venga fatto del bene e non del male”

Ken Follett

A tutti i livelli relazionali, a partire da quello famigliare fino a quello erotico passando per quello amicale, esiste la possibilità in cui l’amore verso l’altro sia acceso dalla necessità di realizzare un affetto negato.

L’affetto negato è un atto d’amore e di vicinanza a cui avevamo diritto in quanto persone ma che per noncuranza, distrazione o incapacità non ci è stato dato e genera solitudine esistenziale.

La solitudine è una delle paure più grandi che le persone possono vivere e non è curabile solo da una prospettiva di compagnia (perché si può essere soli anche in mezzo a tanti) ma specialmente dalla realizzazione di profonda comprensione.

Erich Fromm dice:

L’individuo, pena la propria salute mentale, deve mettersi in qualche modo in relazione con gli altri. La mancanza totale di rapporti lo conduce sull’orlo delle follia. Se in quanto animale teme soprattutto di morire, in quanto uomo teme soprattutto di restare solo.”

Ecco allora la necessità di colmare l’affetto negato; è portatore di morte nella vita e non può essere tollerato.

Nel tentativo di risolvere l’affetto negato però si potrebbe scegliere (o essere scelti) da un’altra persona che vive la stessa ferita, analoga anche nella sua storia.

Ed è un’attrazione fatale perché diventa speculare perché: amo in te ciò che vedo di me e riconosco le tue ferite come le mie.

Così si creano i presupposti per una relazione dolorosa, tossica anche se non immediatamente perché è difficile accorgersene subito.

Infatti tutto ciò accade, specialmente, se non esclusivamente, nell’amore alter familiae, quando si  incontra qualcuno verso cui ci si sente finalmente proiettati o attratti e si ha la sensazione che  la ricerca di una soluzione all’affetto negato abbia trovato pieno ed esaustivo compimento: “ho trovato qualcuno che mi capisce”, oppure “con questa persona mi trovo bene perché abbiamo vissuto situazioni analoghe in passato, dolori simili, abbandoni analoghi etc..”

E così si crea il legame.

E sarà estremamente intenso.

Nelle amicizie ci sarà una condivisione e una complicità difficile da emulare, negli amori la passione ed il rapimento emotivo toccheranno vertici che prima sembravano irreali.

Tutto ciò può durare per qualche tempo ma poi, spesso improvvisamente, l’ingaggio reciproco crolla..

Non si comprende come sia possibile, cosa abbia generato questa maggior freddezza e lontananza e non resta che adeguarsi, magari con il cuore spezzato e l’autostima a pezzi.

Cos’è successo?

Persi nel mondo si è cercato un compagno di viaggio così simile a se stessi da rasentare la copia esatta.

Nello smarrimento esistenziale, dovuto a fatiche, dolori, delusioni e sconfitte di cui magari non si è neanche responsabili può succedere di sentire la necessità di un qualcuno che abbia passato le stesse, o simili, strettoie.

Bisogno che può essere reciproco.

Per questo inizialmente ci si capisce così bene e scatta l’adesione reciproca.

E sarà bella e appassionante ma molto limitata nel tempo.

Perché la vita interiore necessita sempre dell’altro da sé, di orizzonti diversi.

La vita psichica ha bisogno dell’alterità, di una tensione dialettica che spinge oltre il già noto, il già visto ed il già vissuto.

Per questo nello specchio tutto si può raffreddare.

L’altro è stato un rifugio caloroso per un breve momento ma vivere significa esplorare ed uscire dalle paludi dell’eterno ritorno dell’uguale. E’ la necessità interiore dell’oltre e l’amore speculare, ovvero il rispecchiarsi pienamente nell’altro, non lo può offrire.

NOTE

Fromm E.(1960), Psicoanalisi e buddismo Zen, Mondadori, Milano 2018

Campbell, W. K., Foster, C. A., & Finkel, E. J. (2002). Does self-love lead to love for others? A story of narcissistic game playing.Journal of Personality and Social Psychology, 83(2), 340–354.

Boyd, H. (1968). Love versus omnipotence: The narcissistic dilemma.Psychotherapy: Theory, Research & Practice, 5(4), 272–277

Hart, H. H. (1947) Narcissistic Equilibrium. International Journal of Psychoanalysis 28:106-114

L’ALTRO APPARENTE

“Un giorno la vita ha iniziato a ridergli in faccia, e non ha più smesso” P. Roth, Pastorale Americana

E’ lapidaria ed essenziale la frase che Roth dà nel descrivere uno dei protagonisti della sua opera Pastorale Americana.

Senza entrare nel merito del romanzo, si sta parlando di un uomo- lo Svedese- giusto, impegnato, affascinante, dedito alla famiglia e al lavoro, ammirato da tutti come una celebrità locale, che fa i conti con la vita capovolta per via di scelte non sue -subite piuttosto- violente e annichilenti orchestrate da sua figlia.

Quella figlia crescita in una famiglia per lo meno adeguata, benestante e rispettata sarà la causa del suo fallimento.

E l’enigma sulle motivazioni e sulla reale identità della figlia “una figlia fuggitiva che avrebbe dovuto essere l’immagine perfezionata di sé stesso, come lui era l’immagine perfezionata di suo padre, e suo padre l’immagine perfezionata del padre di suo padre…” attanaglieranno l’intera vita dello Svedese, Seymour Levov.

Il romanzo potrebbe essere commentato sotto moltissimi aspetti e porta con sé molti spunti di carattere psicologico ma ciò che interessa rispetto a quest’articolo è l’esperienza emozionale dello stupore dinanzi al cambiamento delle persone, al punto da far sembrare il rapporto precedente come un fenomeno apparente, l’altro come Altro Apparente.

Come le ricerche indicano esiste una forte correlazione tra relazioni soddisfacenti, qualità della vita e salute per cui risulta particolarmente importante riuscire ad orientarsi in un argomento così esposto a mutamento.

Le persone infatti cambiano, e anche tanto.

Potremmo quasi azzardare a definire il loro (nostro) mutamento come una variazione ontologica.

Infatti se è vero che a costituire l’essenza di una persona è proprio ciò che desidera, ciò verso cui tende, al mutare del desiderio potremmo, per estensione semantica, definire questo mutamento come ontologico, ovvero legato alla matrice del suo essere.

La persona coincide con il suo desiderio e lo supera. Attorno al suo desiderio, anche inconsapevolmente, si sviluppa la sua personalità ed il suo ruolo sociale.

Al mutare del suo desiderio, anche radicale, risulta ovvio che a questo coincida un mutamento della sua identità.

Ma chi assiste esternamente a ciò può arrivare a considerare questo processo come un cambiamento di chi prima ben si conosceva e che ora sembra forestiero, al punto da considerare “l’Altro già Conosciuto” come Altro Apparente.

Ma desiderare, sognare e tendere verso qualcosa per raggiungere il suo appagamento necessita sempre una dinamica evolutiva, quindi trasformativa.

Talvolta inoltre è la resa a cambiare l’identità; il desiderio non è raggiuingibile- l’assenza di questi entra così in scena, con tutte le sue capacità malinconiche e depressive.

In questo caso, per difetto desiderante, ci troveremo comunque davanti ad un qualcuno che non è più quello di prima.

Certo infatti è che, in tutto questo trasformismo del desiderio, la persona che siamo o che abbiamo di fronte assume caratteristiche diverse, così tante talvolta da divenire quasi irriconoscibile.

Ecco allora la comparsa delle crisi relazionali; amicizie che si allontanano, amori che finiscono e ruoli che vengono rinnegati.

La nostra mente tendenzialmente procede per economia, ci disturba dover reimpostare una relazione, il modo in cui vediamo l’Altro o addirittura noi stessi.

Così si compiono delle scelte a basso costo psichico: tagliare i rapporti con chi si palesa diversamente (così mi rimane l’idea, il ricordo almeno, di ciò che l’altro è stato senza dovermi confrontare con ciò che ora è diventato) oppure se il cambiamento riguarda noi possiamo scegliere di marcire nella posizione esistenziale precedente pur di non dover affrontare la fatica – spesso prosciugante ma poi sempre liberante- dell’evoluzione.

Cosa rimane dunque?

Come fare per mantenere un minimo di coerenza relazionale ed esistenziale con gli altri e, specialmente, con noi stessi?

Esistono infatti delle relazioni che superano il divenire del desiderio a cui si rimane legati nonostante tutto.

Ci sono persone che, pur facendo mutare enormemente la loro vita, mantengono una certa qual costante identitaria.

Questo accade quando si ha avuto l’opportunità d’intuire ciò che J. Lacan chiama “La Cosa” e S. Freud “das Ding”; un nucleo originario e irraggiungibile, talvolta struggente, che si sottrae alle logiche della necessità, dell’evoluzione interiore stessa e della realtà, ma che pervade l’essere nella sua totalità.

E’ la fonte stessa del Desiderio. Il nucleo vibrazionale da cui procedono tutti gli altri aneliti di vita. E’ la nostalgia originale di un quid non strutturato ne strutturabile.

Quando nel volto dell’altro -o nello specchio- cogliamo e condividiamo “La Cosa”, pur nel mutamento, troviamo l’unità nel cambiamento, la costante nella variazione.

L’ALTRO TRAUMATICO

Il trauma è una ferita, una rottura rispetto al senso di continuità che pensavamo dovesse esserci.

Il trauma è improvviso, inaspettato e talvolta spietato.

Chi lo vive ha la percezione della propria innocenza, dell’arbitrarietà del fato, della crudeltà della storia.

Si impone, obbliga a considerarlo e fa soffrire.

La caratteristica dei traumi psicologici è che sono per lo più legati alle relazioni.

Ovvero sono io rapporto con un Altro, che sia persona, situazione o condizione dell’essere.

In fondo l’intera descrizione stadiale dello sviluppo umano postulato da Freud e poi ulteriormente spiegato, ampliato e reso ancor più comprensibile da altri grandi psicoanalisti a lui successivi, mostra come la crescita, la pienezza sperata e la maturità siano causate da delle discontinuità che emotivamente sono percepite come destabilizzanti e traumatizzanti.

Quindi il trauma ci appartiene. Senza quest’esperienza, che nella sua pienezza dev’essere pensata e compresa da adulti, non diventeremo mai pienamente ciò che siamo o ciò che potremmo essere.

Il trauma ha intimamente a che fare con il Noi; nessuno si traumatizza da solo ma bensì vi è sempre in gioco il rapporto esistente con l’Altro da me – ripeto – inteso sia come persona che come oggetto/condizione esistenziale.

Infatti anche un allucinazione o un delirio riguarda comunque la persona in rapporto con un Altro – enigmatico e persecutorio – che magari pur non esiste ma che, nella mente del delirante, è comunque percepito come un qualcuno che è oltre alla sua stessa identità.

O nelle dipendenze, sia a quelle legate all’utilizzo specifico di sostanze che a quelle relative a comportamenti che si vorrebbero evitare ma dai quali sembra non esserci scampo, la percezione è che ci sia una parte Altra , più potente della volontà e dell’autoconservazione, che comanda arbitrariamente e dispoticamente la vita.

Neanche i momenti forse dove il trauma è apparentemente solitario come gli incidenti è in realtà così perché poi si teme il ripetersi di una situazione o i mezzi diretti che l’hanno causata. Quindi è sempre Altro rispetto al soggetto.

Per esempio la paura di guidare, di prendere l’autostrada, di stare soli in auto, di prendere un aereo o di tornare in sella sono tutti segni di un qualche trauma -vissuto anche individualmente- ma che riempie la scena mentale di una certa invasività contraria alla volontà della persona e quindi percepita come parte estranea: l’Altro.

Ed è un Altro che chiede – reclama- di essere ascoltato. Non se ne può fare a meno.

Per qualche tempo si possono avviare delle strategie di evitamento ma è evidente che nella maggior parte dei casi sono dinamiche che non possono continuare nel tempo.

Si sta vivendo il trauma, un punto di rottura, ma questi è anche una fase di cambiamento.

Lungo l’articolo abbiamo quindi notato come il trauma abbia sempre a che fare con l’Altro, sia reale che fantasmatico.

L’Altro mentale, che abita l’animo, che si fa percepire e conoscere.

L’Altro assente, giudicante e perturbante.

Ma l’Altro sa anche essere motivante, riflettente e vero.

Sa presentare parti di mondo ignote, dimensioni dell’essere non ancora afferrate.

L’Altro è trauma ma può anche essere balsamo.

L’ABBANDONO

COME VIVERLO E COME EVITARLO (SE POSSIBILE)

Subire un abbandono o abbandonare qualcuno o qualcosa (come un ideale, un gruppo, un senso d’appartenenza etc.) è una delle esperienze più radicali che si possano vivere.

Ovviamente l’essere abbandonati è più sconcertante perché, percependo un rifiuto, viene così implicitamente esaltata una qualche inadeguatezza (o presunta tale) che può far sorgere talvolta anche un certo senso d’ingiustizia.

Ci si ritrova così passivi ed esposti ad eventi sui quali si ha la sensazione d’avere uno scarso controllo.

Inoltre l’essere abbandonati è spesso improvviso, lapidario e desertificante.

Che l’abbandono subito sia una persona che se ne va dalla nostra vita o un esclusione da una dinamica nella quale prima ci sentivamo partecipi rappresenta comunque una perdita nella nostra identità, di chi siamo nel mondo, dato che è anche lo sguardo dell’altro a raccontarci e a confermare chi siamo.

E’ questo un vuoto, una ferita, una mancanza di continuità dell’essere che con il tempo va necessariamente rimarginata e interiorizzata.

Anche abbandonare però non è sempre facile.

Il luogo comune, il pensiero di molti, fa quasi intendere che chi abbandona in realtà sia la parte più forte o che abbia almeno una situazione migliore alla quale approdare. Alcune volte è effettivamente così, ma talvolta, andando oltre la superficie delle cose, vi è altresì un vissuto sofferto, un sentirsi fuori luogo, straniero in patria, estraneo in casa e sconosciuto a chi ti è vicino.

Perché allora accade l’abbandono?

Lo sguardo dell’altro ci racconta e conferma chi siamo ma occorre anche affermare che certi cambiamenti nell’identità di una persona corrispondono necessariamente ad un mutamento relazionale.

E’ una chimera pensare all’identità come ad un qualcosa di granitico, irremovibile e sempre uguale a sé stessa.

Il tempo, le varie vicende vissute e patite, i livelli di consapevolezza raggiunti producono inevitabilmente e drammaticamente un nuovo modo di percepirsi a cui solo il soggetto protagonista, solo ciascuno per sé, può dare pienamente un senso d’unità.

Dentro a questo fluire di eventi cambiamo e con noi mutano le nostre esigenze esistenziali, tra cui le relazioni.

Certo, esistono dei principi etici a cui ciascuno può e deve far riferimento che effettivamente possono moderare lo strappo dato dall’identità sorgente ma a condizione di poter affermare che non è tanto la sfida del tempo che passa a minacciare una relazione ma quanto il non riconoscersi più come l’altro mi vede.

Per questo serve coscienza di sé e magari, se davvero si crede che la relazione possa sopravvivere, non vivere tanto nell’illusione allucinata del “ti conosco già” ma piuttosto aprirsi , curiosamente e creativamente, verso al nuovo che l’altro da me è diventato.

Non è tanto quindi un riscoprire l’altro (azione che inevitabilmente si radica nel passato ) ma piuttosto il desiderio conoscere quel qualcosa di nuovo che ora lo abita per poter così generare una linfa nuova nel presente della relazione.

INTERVISTA PRONTOPRO.IT

Ho avuto il piacere di rilasciare un’ intervista a propontopro.it, uno dei siti italiani più noti che da sempre monitora, aggiorna e orienta i propri utenti nella ricerca di un esperto adeguato in vari ambiti lavorativi. Di seguito, seguendo il link, può essere letta integralmente.

https://www.prontopro.it/vi/bassano-del-grappa/psicologo-e-coaching#pro-interview

TEMPO SOSPESO E TEMPO LIMITE

Il periodo nel quale ci troviamo a vivere è come un epoca sospesa; poche certezze, precarietà relazionale e continue minacce alla salute.

La pandemia Covid 19 ha colpito il mondo intero, nei casi peggiori direttamente riscontrando una positività al virus e negli altri piuttosto come un sentimento di preoccupazione costante che spesso è sfociata in stati ansiosi e depressivi ma anche in palesi gesti di disinteresse (per esasperazione) o addirittura in rabbia.

Questa vicenda entrerà sicuramente nei libri di storia anche se la valutazione che noi stessi daremo assieme ai posteri è ancora tutta da definire.

Attualmente, a pandemia in corso e in attesa di una probabile seconda ondata, ci si sente ancor più in uno stato di stallo esistenziale.

Chi deve cambiare qualcosa nella propria vita, qualsiasi cosa anche piccola, oggi aspetta.

Dall’automobile alla casa, dal lavoro fino agli interessi e il relax. Tutti aspettano, pochi intraprendono qualcosa di nuovo, anche perché di fatto è vietato o fortemente sconsigliato.

Nel frattempo notiamo anche i limiti della società dell’informazione: tante notizie e approfondimenti soggettivi e contraddittori tra loro sono diventati il nostro pane quotidiano. C’è chi addirittura si arrende e sceglie di non seguire più lo svilupparsi della vicenda.

C’è chi nega e chi vede complotti internazionali. C’è chi offre tempi quasi certi e speranza di soluzione e chi continua a sottolineare le mancanze del sistema. C’è chi piange un proprio caro morto a causa o con il Covid 19 e chi fa gesti plateali, organizzando persino feste ad hoc.

C’è il lavoratore in smart working e lo studente che perde la dinamica relazionale della scuola; ci sono poi le persone più avanti con gli anni che si trovano a sentirsi dire che sono deboli, più sensibili, anche se la loro salute è perfetta.

C’è chi vive in aree densamente abitate per cui il rischio di contagio è davvero alto e chi invece, nei piccoli paesi, si sente ancor più isolato di prima ma forse più protetto.

C’è chi misura quanto tempo potenzialmente il virus resiste sulle superfici e chi riutilizza troppe volte la stessa mascherina.

C’è chi scopre nuovi inimicizie (il vicino di casa rumoroso) e chi sente la mancanza dei propri cari che magari, essendo degenti in una RSA, non possono più avere quel minimo di relazione che già prima sembrava magari insufficiente.

Potrei continuare anche raccontando anche cose ironiche, ma il punto è: di tutta questa storia, di questo tempo assurdo e sospeso, cosa ne facciamo ora?

Martin Heidegger sottolineava come esistessero due modi per affrontare la vita: uno inautentico e l’altro autentico.

Quello inautentico è segnato dalla leggerezza, dal vivere alla giornata, dall’ovvietà, dal consumo delle cose del mondo, dal chiacchiericcio costante mentre quello autentico punta all’essenzialità del pensiero, alla meraviglia per il fatto che l’essere è e non può non essere.

La strada autentica si trova a dover affrontare le situazioni al limite e, in virtù di quest’esperienza, farsi coinvolgere da un esistenza più radicata, più saggia e quindi più degna e sensata.

Questa sensatezza ricercata e ritrovata trasforma il tempo sospeso in un tempo al limite capace di spingere la mente ed il cuore a profondità forse nuove.

LA FENICE: DAL MITO AL SIMBOLO

Una delle figure mitologiche più famose dell’occidente ellenistico è la Fenice. Un uccello dal piumaggio di sorprendente bellezza che, sentendo il sopraggiungere della morte, si crea un nido entro il quale avvolgersi per poi esporlo alla luce del sole per esserne incendiato; dalle sue ceneri emana un profumo soave ed esattamente da queste poi riesce a risorgere.

Il suo motto è: post fata, resurgo, normalmente tradotto con “dopo la morte risorgo”.

In realtà questa è una traduzione semplicista perchè la parola fatum in latino ha una traduzione molto più complessa e significa infatti: oracolo, predizione e morte ma anche destino, inteso come il corso effettivo, concreto e materiale, della vita.

Quindi, volendo una traduzione altrettanto letterale, sarebbe lecito intendere il motto della fenice così: “dopo il corso degli eventi della vita, risorgo, mi alzo ancora”.

Esiste inoltre una tradizione antica, ovvero l’associare alcuni ambienti della società alla fenice

Molti luoghi della cultura, biblioteche e teatri sono stati infatti posti sotto la “protezione” della Fenice: il teatro di Venezia è così chiamato ma anche il Louvre ha scolpite sulle facciate alcune fenici ed in innumerevoli biblioteche antiche ne possiamo trovare traccia.

Luoghi dove si contempla la musica, l’interiorità del sapere e la condivisione estetica sono tradizionalmente indicati come “ambienti da fenice” quasi a voler lasciare un messaggio: se la vita e i colpi del destino sono stati duri, se vuoi rialzarti punta allora su una conoscenza più elevata, mira alla bellezza e all’armonia. Assumi e comprendi il sapere antico e trova una sintesi con quanto stai vivendo facendolo rivivere nel tuo presente.

Entra nell’interiorità, prendi dimora e metti ordine. Nella disarmonia cerca armonia. Nella confusione cerca parole nuoveNella non conoscenza fa vibrare la tua interiorità.

Intuitivamente molte persone colgono il significato che la fenice porta con sè e che viene così ben manifestato nel suo simbolismo.

Accadono momenti nella vita nei quali occorrono sintesi nuove, in cui la consapevolezza acquisita si rivela insufficiente e si percepisce quindi la necessità esistenziale dell’oltre.

E si capisce che proprio in questo superamento delle proprie identificazioni e credenze accade una morte e una risurrezione, come nella fenice.

E’ la chiusura – preparata, accompagnata e non caotica –  delle vecchie procedure interiori (come la fenice che si prepara da sola il nido da incendiare) che fa così finalmente spazio al nuovo di sè.

Una descrizione suggestiva in fondo anche dell’esperienza analitica.

Post fata, resurgo.

LA LEGGE DELLA SOTTRAZIONE

Ci sono eventi nella vita, sia come individui che come collettività, che portano nel soggetto che li vive (o subisce) una domanda di significato.

“Che senso ha quello sto vivendo?”

Intuiamo in effetti che il dubbio, la privazione, il limite e anche il dolore possono assumere delle sfumature nuove se acquisiscono un senso.

Lo abbiamo imparato fin da piccoli: ci sono delle sofferenze che aiutano e anche se lì per lì nessuno vorrebbe viverle poi di fatto servono per la crescita personale.

Infatti i rifiuti che abbiamo subito, anche ingiustamente, ci hanno fatto capire la realtà.

Le ferite ci insegnano infatti a prenderci cura di noi e ad evitare i pericoli, diventando poi anche delle feritoie su cui interpretare la vita.

E poi i grandi della storia che hanno consegnato sé stessi per una causa superiore sono quegli esempi che giustamente ci sono stati messi davanti per farci capire una delle leggi implicite della vita, quella della sottrazione: talvolta occorre rimandare il piacere ed il proprio interesse immediato per progredire. Occorre togliere, resistere, stringere i denti e anche sentire la mancanza.

Ma, malgrado la nostra stessa esperienza e gli esempi che sono fonte d’ispirazione, tutto questo sembra non bastare sempre per non scoraggiarsi nelle avversità.

L’esistenza di ciascuno riserva luoghi ignoti, sorprendenti ed imprevedibili, nei quali la “legge del progresso per sottrazione” non solo non si presenta come indiscutibimente consolatoria ma, nel pieno del perturbante, sembra essere non più cosi sicura.

Certamente di grande aiuto possono essere le convinzioni circa il senso del vivere maturate precedentemente, sia di ordine filosofico che di carattere teologico; ma se queste non sono radicate su una personalità sufficientemente definita possono essere percepite, proprio nel momento in cui sono più necessarie, come false, ingiuste e ingannevoli. E così nascono, tra le varie reazioni possibili, anche degli stati depressivi, ansiosi, distruttivi e cinici.

Ovviamente ciascuno elabora liberamente -si spera!- i propri orientamenti esistenziali, anche a seguito della sintesi del vissuto in ordine sia del pensiero che dell’azione, ma per potersi sentire su una base sicura, capace effettivamente di dare senso al vissuto di privazione in atto, occorre compiere un cammino interiore di autenticità.

E’ il passaggio di consapevolezza dall’Io al Sé. L’Io può essere Falso, frutto di un economia interiore orientata all’adattamento all’ambiente e alle persone rilevanti da esso popolato. Ed è inevitabile.

Un bambino inizierà fin da subito a cercare di capire il luogo dove vive, d’interpretarlo, di trovare un posto nel mondo, d’interiorizzarne i valori e crescendo questo processo sarà sempre più sofisticato fino all’età adulta e così sorgerà l’Io. L’Io riceverà rinforzi continui dall’ambiente e si assumeranno vari ruoli in società coerenti con l’Io che con tanta fatica si è costruito

Ci si adatta quindi, magari credendo per davvero alle suggestioni e ai convincimenti ricevuti; ma se questi si radicano nell’Io e non nel Sé possono essere ininfluenti quando le necessità d’adattamento vengono superate e le condizioni d’ingaggio alla vita cambiano.

Tutto questo accade con maggior intensità se il presente altresì offre delle criticità da affrontare per le quali ci si chiede il senso. Ciò che l’Io ha appreso e che prima dava un qualche tipo di orientamento sembra non servire momentaneamente più a nulla.

E così si può correre nella posizione di pensiero opposta ma che, se ancora una volta viene radicata sull’Io, si rivela presto altrettanto inefficace. Oppure si può trovare rifugio nell’alienazione iniziando ad abusare delle cose del mondo, sia lecite che illecite, illudendo e/o stordendo sé stessi e vivendo, di fatto, in fuga.

Sono scelte di reazione alla desolazione interiore dell’Io, continuamente riempita da palliativi talvolta così raffinati da nascondere alla stessa persona interessata il vuoto esistenziale che l’avvolge. Questo nihil potrebbe essere non percepibile in sé anche per lungo tempo ma lo si vede comunque riflesso negli occhi di chi ci guarda, talvolta come condivisione dell’oscurità e altre come muto allontanamento per timore del precipizio.

Il Sè al contrario è una dimensione di totalità, pur sempre in divenire. E’ germinante, colorato e rasserenante. Stabile ma non immobile. Impetuoso e creativo ma rasserenato. Raggiungibile sempre a partire dalla demolizione del Falso Io.

Il Sè è la conditio per trovare una risposta adeguata e di senso nelle avversità ed è raggiungibile, anche senza essere mai del tutto afferrabile.

Mentre l’Io viene percepito come un monolite il Sè è più un fiume.

L’Io può essere una maschera figlia dell’adattamento che rende la vita, ben che vada, tiepida, il Sè appare come risolto e risoluto..

E a quel punto, se le necessità della vita dovessero imporre ancora la “Legge del progresso per sottrazione” questa diventerebbe allora più sopportabile e accettabile proprio perché la base su cui potrà poggiare sarà più solida e autentica.

DISTANZIAMENTO: DAL PROSSIMO AL PROSSIMALE

Distanziamento: dal prossimo al prossimale

Ormai conosciamo tutti cosa significhi il distanziamento; l’esperienza del Covid-19 ci ha fatto percepire, tra le varie, la portata esistenziale dello “stare lontani.”

In realtà questa è un’esperienza che purtroppo molte persone avevano già vissuto a causa di alcune patologie, sia di carattere mentale che fisico.

Oggi invece tutti la conoscono.

Distanziamento significa sia il doversi allontanare, mantenendo alcuni metri di distanza dall’altro, ma anche e specialmente dover iniziare a considerare l’altro come un potenziale pericolo per la propria salute.

Tornano così alla memoria le drammatiche parole  di E. Lévinas: “Il volto è ciò che non sì può uccidere o, almeno, ciò il cui senso consiste nel dire «tu non ucciderai» […] Il «tu non ucciderai» è la prima parola del volto, e si tratta di un ordine. Nell’apparizione del volto si trova un comandamento, come se mi parlasse un maestro. Nello stesso tempo, tuttavia, il volto di altri è spoglio: è il povero per il quale io posso tutto e al quale devo tutto.”

In questi giorni guardiamo all’altro e diciamo a noi stessi e a lui “tu non ucciderai” perché in noi abita qualcosa di prezioso: la vita.

La minaccia, il pericolo derivante dall’incontro, prima del distanziamento era un fenomeno raramente vissuto dalle persone e accadeva solo in situazioni limite; oggi invece la si percepisce in noi e nello sguardo dell’altro.

Ciascuno, inconsapevolmente e incolpevolmente, diventa in potenza “homo homini lupus ” (uomo  lupo per l’uomo), citando Thomas Hobbes.

La stessa comunicazione è andata poi invertendosi: oggi la gestualità della vicinanza, dell’affetto, della cura è paradossalmente il suo opposto. “Vuoi bene a qualcuno? Ti interessa incontrare e mostrare benevolenza?” – ci dicono- “ Bene! Stagli distante, non toccarlo e non respirare la sua aria!”

L’affetto si dimostra allontanandosi; peccato che la nostra struttura psicofisica sia fatta per l’esatto opposto.

Sono tornati in auge così dei surrogati relazionali come la virtualità, le videochiamate e le conference call ma è evidente che queste non hanno ancora la capacità di sostituirsi alla realtà effettiva e concreta, per quanto siano utili e necessarie. Ne percepiamo infatti il limite strutturale. L’altro  è presenza nello spazio, è movimento, energia toccata e profumo percepito. La presenza dell’altro non può accontentarsi solo della vista e dell’udito..

E’ quindi un momento assolutamente particolare. Ovviamente ci sono molte buone ragioni per essere a disagio, anche per il limite di spazio vitale disponibile, eppure vediamo come ad una essere posto in dubbio per molti non sono solo le cose pratiche della vita, che sono in questo tempo limitate, ma piuttosto parti della propria identità.

La nostra identità, ovvero chi diciamo di essere, si crea e si modifica lungo tutto l’arco della vita, pur con intensità diverse, proprio a causa dalla relazione con gli altri, inoltre è mediamente dinamica, si adatta e cambia, pur mantenendo delle costanti fondamentali, secondo le circostanze vissute, per esempio a casa non siamo gli stessi che al lavoro.

Per dirla sinteticamente non esiste l’Io senza il Noi.

Solo che il Noi ì“Il prossimo” oggi è diventato “Prossimale”, ovvero un qualcuno più pensato  che incontrato, più progettato per il futuro piuttosto che un individuo con il quale si condivide il presente.

Limitare la disponibilità relazionale ha quindi inevitabilmente delle ricadute sulla nostra identità, talvolta anche patologiche innescando così smarrimento, ansia, depressioni, dipendenze, crisi coniugali ed esistenziali.

E’ così, oltre magari alla noia o alla preoccupazione per il lavoro, in molti si trovano bloccati con sé stessi. E non è detto che sia una bella compagnia perché in assenza del Noi è comunque non completa..

J. P. Sartre diceva: “ Se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia”.

Dicevamo che l’Io non esiste pienamente senza il Noi e che per sua natura è dinamico.

Oggi invece ci dobbiamo accontentare di un Io maggiormente statico, che trae beneficio dal percorso di vita  sin qui fatto e che può nutrirsi principalmente solo di quello che è già stato.

Se abitare sé stessi oggi  è fonte di disagio significa che ciò che avevamo acquisito di noi prima del distanziamento era per certi versi limitato, incompleto se non addirittura falso.

Per questo, già da ora, è scoccato il tempo della verità. La verità di chi siamo s’impone, non ci sono fughe anestetizzanti. Ci siamo noi. L’atteggiamento di chi continua a proiettarsi oltre il distanziamento ( anche se è legittima la speranza della normalità, ovviamente) può produrre frustrazione ma anche curiosità.

Nella vita ordinaria, essendo l’Io molto dinamico, alcuni suoi aspetti, sia luminosi che tenebrosi, possono essere mascherati, correre via senza essere visti. La staticità di questi giorni ,unita alla curiosità, ci prepara allo stupore della scoperta che può permettere di ampliare la conoscenza che abbiamo di noi stessi.Così questo non sarà stato solo un tempo sospeso e passivo ma anche creativo e fondativo.