L’ALTRO APPARENTE

“Un giorno la vita ha iniziato a ridergli in faccia, e non ha più smesso” P. Roth, Pastorale Americana

E’ lapidaria ed essenziale la frase che Roth dà nel descrivere uno dei protagonisti della sua opera Pastorale Americana.

Senza entrare nel merito del romanzo, si sta parlando di un uomo- lo Svedese- giusto, impegnato, affascinante, dedito alla famiglia e al lavoro, ammirato da tutti come una celebrità locale, che fa i conti con la vita capovolta per via di scelte non sue -subite piuttosto- violente e annichilenti orchestrate da sua figlia.

Quella figlia crescita in una famiglia per lo meno adeguata, benestante e rispettata sarà la causa del suo fallimento.

E l’enigma sulle motivazioni e sulla reale identità della figlia “una figlia fuggitiva che avrebbe dovuto essere l’immagine perfezionata di sé stesso, come lui era l’immagine perfezionata di suo padre, e suo padre l’immagine perfezionata del padre di suo padre…” attanaglieranno l’intera vita dello Svedese, Seymour Levov.

Il romanzo potrebbe essere commentato sotto moltissimi aspetti e porta con sé molti spunti di carattere psicologico ma ciò che interessa rispetto a quest’articolo è l’esperienza emozionale dello stupore dinanzi al cambiamento delle persone, al punto da far sembrare il rapporto precedente come un fenomeno apparente, l’altro come Altro Apparente.

Come le ricerche indicano esiste una forte correlazione tra relazioni soddisfacenti, qualità della vita e salute per cui risulta particolarmente importante riuscire ad orientarsi in un argomento così esposto a mutamento.

Le persone infatti cambiano, e anche tanto.

Potremmo quasi azzardare a definire il loro (nostro) mutamento come una variazione ontologica.

Infatti se è vero che a costituire l’essenza di una persona è proprio ciò che desidera, ciò verso cui tende, al mutare del desiderio potremmo, per estensione semantica, definire questo mutamento come ontologico, ovvero legato alla matrice del suo essere.

La persona coincide con il suo desiderio e lo supera. Attorno al suo desiderio, anche inconsapevolmente, si sviluppa la sua personalità ed il suo ruolo sociale.

Al mutare del suo desiderio, anche radicale, risulta ovvio che a questo coincida un mutamento della sua identità.

Ma chi assiste esternamente a ciò può arrivare a considerare questo processo come un cambiamento di chi prima ben si conosceva e che ora sembra forestiero, al punto da considerare “l’Altro già Conosciuto” come Altro Apparente.

Ma desiderare, sognare e tendere verso qualcosa per raggiungere il suo appagamento necessita sempre una dinamica evolutiva, quindi trasformativa.

Talvolta inoltre è la resa a cambiare l’identità; il desiderio non è raggiuingibile- l’assenza di questi entra così in scena, con tutte le sue capacità malinconiche e depressive.

In questo caso, per difetto desiderante, ci troveremo comunque davanti ad un qualcuno che non è più quello di prima.

Certo infatti è che, in tutto questo trasformismo del desiderio, la persona che siamo o che abbiamo di fronte assume caratteristiche diverse, così tante talvolta da divenire quasi irriconoscibile.

Ecco allora la comparsa delle crisi relazionali; amicizie che si allontanano, amori che finiscono e ruoli che vengono rinnegati.

La nostra mente tendenzialmente procede per economia, ci disturba dover reimpostare una relazione, il modo in cui vediamo l’Altro o addirittura noi stessi.

Così si compiono delle scelte a basso costo psichico: tagliare i rapporti con chi si palesa diversamente (così mi rimane l’idea, il ricordo almeno, di ciò che l’altro è stato senza dovermi confrontare con ciò che ora è diventato) oppure se il cambiamento riguarda noi possiamo scegliere di marcire nella posizione esistenziale precedente pur di non dover affrontare la fatica – spesso prosciugante ma poi sempre liberante- dell’evoluzione.

Cosa rimane dunque?

Come fare per mantenere un minimo di coerenza relazionale ed esistenziale con gli altri e, specialmente, con noi stessi?

Esistono infatti delle relazioni che superano il divenire del desiderio a cui si rimane legati nonostante tutto.

Ci sono persone che, pur facendo mutare enormemente la loro vita, mantengono una certa qual costante identitaria.

Questo accade quando si ha avuto l’opportunità d’intuire ciò che J. Lacan chiama “La Cosa” e S. Freud “das Ding”; un nucleo originario e irraggiungibile, talvolta struggente, che si sottrae alle logiche della necessità, dell’evoluzione interiore stessa e della realtà, ma che pervade l’essere nella sua totalità.

E’ la fonte stessa del Desiderio. Il nucleo vibrazionale da cui procedono tutti gli altri aneliti di vita. E’ la nostalgia originale di un quid non strutturato ne strutturabile.

Quando nel volto dell’altro -o nello specchio- cogliamo e condividiamo “La Cosa”, pur nel mutamento, troviamo l’unità nel cambiamento, la costante nella variazione.

L’ABBANDONO

COME VIVERLO E COME EVITARLO (SE POSSIBILE)

Subire un abbandono o abbandonare qualcuno o qualcosa (come un ideale, un gruppo, un senso d’appartenenza etc.) è una delle esperienze più radicali che si possano vivere.

Ovviamente l’essere abbandonati è più sconcertante perché, percependo un rifiuto, viene così implicitamente esaltata una qualche inadeguatezza (o presunta tale) che può far sorgere talvolta anche un certo senso d’ingiustizia.

Ci si ritrova così passivi ed esposti ad eventi sui quali si ha la sensazione d’avere uno scarso controllo.

Inoltre l’essere abbandonati è spesso improvviso, lapidario e desertificante.

Che l’abbandono subito sia una persona che se ne va dalla nostra vita o un esclusione da una dinamica nella quale prima ci sentivamo partecipi rappresenta comunque una perdita nella nostra identità, di chi siamo nel mondo, dato che è anche lo sguardo dell’altro a raccontarci e a confermare chi siamo.

E’ questo un vuoto, una ferita, una mancanza di continuità dell’essere che con il tempo va necessariamente rimarginata e interiorizzata.

Anche abbandonare però non è sempre facile.

Il luogo comune, il pensiero di molti, fa quasi intendere che chi abbandona in realtà sia la parte più forte o che abbia almeno una situazione migliore alla quale approdare. Alcune volte è effettivamente così, ma talvolta, andando oltre la superficie delle cose, vi è altresì un vissuto sofferto, un sentirsi fuori luogo, straniero in patria, estraneo in casa e sconosciuto a chi ti è vicino.

Perché allora accade l’abbandono?

Lo sguardo dell’altro ci racconta e conferma chi siamo ma occorre anche affermare che certi cambiamenti nell’identità di una persona corrispondono necessariamente ad un mutamento relazionale.

E’ una chimera pensare all’identità come ad un qualcosa di granitico, irremovibile e sempre uguale a sé stessa.

Il tempo, le varie vicende vissute e patite, i livelli di consapevolezza raggiunti producono inevitabilmente e drammaticamente un nuovo modo di percepirsi a cui solo il soggetto protagonista, solo ciascuno per sé, può dare pienamente un senso d’unità.

Dentro a questo fluire di eventi cambiamo e con noi mutano le nostre esigenze esistenziali, tra cui le relazioni.

Certo, esistono dei principi etici a cui ciascuno può e deve far riferimento che effettivamente possono moderare lo strappo dato dall’identità sorgente ma a condizione di poter affermare che non è tanto la sfida del tempo che passa a minacciare una relazione ma quanto il non riconoscersi più come l’altro mi vede.

Per questo serve coscienza di sé e magari, se davvero si crede che la relazione possa sopravvivere, non vivere tanto nell’illusione allucinata del “ti conosco già” ma piuttosto aprirsi , curiosamente e creativamente, verso al nuovo che l’altro da me è diventato.

Non è tanto quindi un riscoprire l’altro (azione che inevitabilmente si radica nel passato ) ma piuttosto il desiderio conoscere quel qualcosa di nuovo che ora lo abita per poter così generare una linfa nuova nel presente della relazione.

INTERVISTA PRONTOPRO.IT

Ho avuto il piacere di rilasciare un’ intervista a propontopro.it, uno dei siti italiani più noti che da sempre monitora, aggiorna e orienta i propri utenti nella ricerca di un esperto adeguato in vari ambiti lavorativi. Di seguito, seguendo il link, può essere letta integralmente.

https://www.prontopro.it/vi/bassano-del-grappa/psicologo-e-coaching#pro-interview

TEMPO SOSPESO E TEMPO LIMITE

Il periodo nel quale ci troviamo a vivere è come un epoca sospesa; poche certezze, precarietà relazionale e continue minacce alla salute.

La pandemia Covid 19 ha colpito il mondo intero, nei casi peggiori direttamente riscontrando una positività al virus e negli altri piuttosto come un sentimento di preoccupazione costante che spesso è sfociata in stati ansiosi e depressivi ma anche in palesi gesti di disinteresse (per esasperazione) o addirittura in rabbia.

Questa vicenda entrerà sicuramente nei libri di storia anche se la valutazione che noi stessi daremo assieme ai posteri è ancora tutta da definire.

Attualmente, a pandemia in corso e in attesa di una probabile seconda ondata, ci si sente ancor più in uno stato di stallo esistenziale.

Chi deve cambiare qualcosa nella propria vita, qualsiasi cosa anche piccola, oggi aspetta.

Dall’automobile alla casa, dal lavoro fino agli interessi e il relax. Tutti aspettano, pochi intraprendono qualcosa di nuovo, anche perché di fatto è vietato o fortemente sconsigliato.

Nel frattempo notiamo anche i limiti della società dell’informazione: tante notizie e approfondimenti soggettivi e contraddittori tra loro sono diventati il nostro pane quotidiano. C’è chi addirittura si arrende e sceglie di non seguire più lo svilupparsi della vicenda.

C’è chi nega e chi vede complotti internazionali. C’è chi offre tempi quasi certi e speranza di soluzione e chi continua a sottolineare le mancanze del sistema. C’è chi piange un proprio caro morto a causa o con il Covid 19 e chi fa gesti plateali, organizzando persino feste ad hoc.

C’è il lavoratore in smart working e lo studente che perde la dinamica relazionale della scuola; ci sono poi le persone più avanti con gli anni che si trovano a sentirsi dire che sono deboli, più sensibili, anche se la loro salute è perfetta.

C’è chi vive in aree densamente abitate per cui il rischio di contagio è davvero alto e chi invece, nei piccoli paesi, si sente ancor più isolato di prima ma forse più protetto.

C’è chi misura quanto tempo potenzialmente il virus resiste sulle superfici e chi riutilizza troppe volte la stessa mascherina.

C’è chi scopre nuovi inimicizie (il vicino di casa rumoroso) e chi sente la mancanza dei propri cari che magari, essendo degenti in una RSA, non possono più avere quel minimo di relazione che già prima sembrava magari insufficiente.

Potrei continuare anche raccontando anche cose ironiche, ma il punto è: di tutta questa storia, di questo tempo assurdo e sospeso, cosa ne facciamo ora?

Martin Heidegger sottolineava come esistessero due modi per affrontare la vita: uno inautentico e l’altro autentico.

Quello inautentico è segnato dalla leggerezza, dal vivere alla giornata, dall’ovvietà, dal consumo delle cose del mondo, dal chiacchiericcio costante mentre quello autentico punta all’essenzialità del pensiero, alla meraviglia per il fatto che l’essere è e non può non essere.

La strada autentica si trova a dover affrontare le situazioni al limite e, in virtù di quest’esperienza, farsi coinvolgere da un esistenza più radicata, più saggia e quindi più degna e sensata.

Questa sensatezza ricercata e ritrovata trasforma il tempo sospeso in un tempo al limite capace di spingere la mente ed il cuore a profondità forse nuove.

PERCHE’ RIALZARSI NELLE DIFFICOLTA’?

La “resilienza” è una parola che deriva dalla fisica dei metalli riferita originariamente al loro  capacità di assorbire un urto senza rompersi.

Di conseguenza è un concetto molto usato nella progettazione dei veicoli di trasporto e non solo.

Per diffusione lo stesso concetto è stato poi applicato alla mente umana.

Nella vita possono arrivare eventi difficili, degli urti esistenziali, dei fallimenti, degli avvenimenti che facciamo fatica ad accettare; il resiliente è chi affronta queste sfide senza fuggire o, peggio, senza sentirsi annientato.

Tutti abbiamo uno o più punti di rottura e si spera sempre di starsene ben alla larga.

L’integrità della nostra persona, della nostra vita mentale ed emotiva viene così automaticamente difesa.

Ma ci sono avvenimenti che accadono oltre la nostra volontà: una separazione, una malattia o una crisi in genere.

Certo, dal punto di vista psicologico si può analizzare e comprendere meglio la natura delle difficoltà vissute e spesso si nota come in realtà siano presenti degli aspetti inconsci e autosabotanti che in un qualche modo attraggono alcune avversità; è opportuno quindi conoscere queste forze interiori ed integrarle, specie in vista del futuro.

Ma esiste anche il presente, il qui ed ora e, anche se non ancora risolto, comunque occorre vivere, andare avanti e ci poniamo allora queste domande; durante la crisi cosa facciamo? Come possiamo reagire?

Con alcune attenzioni e convinzioni:


1. La crisi è spesso connaturale con l’evoluzione. Raramente si passa da una condizione all’altra senza disagio.

2. La crisi è il passaggio, il momento in cui ci si sgancia dalle certezze acquisite e si aprono nuovi orizzonti.

3. La crisi va considerata come una preziosa alleata. Obbliga a fermarsi, a riorientarsi e a capire qual’è la strada giusta.

4. Le crisi hanno un tempo limitato, nelle situazioni più complesse anche anni ma poi, per loro stessa natura, finiscono.

5.La crisi non è necessariamente una rottura totale rispetto a tutto quello che è stato fatto precedentemente.

6. La crisi chiede, esige, interiorità. Occorre fermarsi, capirsi e orientarsi. Non è strano vivere queste dimensioni…semmai la stranezza è all’opposto.

Però esiste la variabile caos; alcune crisi non le scegliamo, non sono il frutto dei nostri errori ma piuttosto di quelli degli altri che si ripercuotono su di noi.

Non importa di chi sia la colpa. Dal punto di vista psicologico gli effetti sono quasi gli stessi e le attitudini per superare le difficoltà sono pressoché le stesse. La vera domanda è: cosa credo sia la vita? Una crociera dove star il più tranquilli possibile o un viaggio d’esplorazione nel quale, attraverso le prove della vita, gradualmente arrivo a nuovi gradi di sapienza?

Il primo cercherà delle comfort zone e vivrà le difficoltà come delle maledizioni mentre il secondo, non le cercherà ma sa che possono fare parte del gioco, e vivendole ne trarrá beneficio, pur a volte nel dolore, anzi forse proprio grazie ad esso

COME PRENDERE DECISIONI SENZA PENTIMENTI!

Sia su questioni quotidiane, magari anche non aventi un valore determinante, che su questioni fondamentali, quelle che cambiano il corso della vita, ci si può trovare in uno stato d’impasse, di blocco.

Faccio o meno questa scelta?

Come mi devo comportare?

E se sbaglio?

Domande che tutti ci poniamo, legate magari ad un comportamento da tenere in una certa situazione, un investimento da fare, una scelta lavorativa, un modo nuovo per gestire le relazioni fino a scelte ancor più grandi che segneranno indelebilmente il corso del resto della nostra esistenza come quella della maternità\paternità.

Di seguito inserisco 4 suggerimenti  che possiamo adottare quando dobbiamo decidere:

PRIMO STEP

Andare oltre il bene ed il male, ovvero oltre il senso del dovere. Molte vite sono state soffocate da un “tu devi” interiorizzato. “Devi far così perché così è giusto, perché questo ci si aspetta da te, perché lo fanno tutti”. Già F. Nietzsche nell’opera “Così parlò Zarathustra” in un racconto onirico affermava che occorre passare dal “tu devi” al “tu puoi.” Non si tratta di essere disinteressati rispetto al pensiero comune, all’etica di cui si è parte -anzi – ma eventualmente di saperla declinare secondo il proprio modo d’essere, in piena coscienza. Ovviamente questo processo ha dei limiti che sono le leggi dello Stato di appartenenza che normalmente rappresentano il minimo comun denominatore per la vita civile e che hanno comunque al loro interno dei meccanismi per il miglioramento o superamento delle norme deficitarie, qualora sia necessario.

Detto questo, la domanda da porsi quindi non è tanto relativa al giusto o allo sbagliato ma piuttosto: questa scelta mi fa vivere o mi uccide lentamente?

SECONDO STEP

La scelta che devi prendere per chi viene fatta? Porsi questa domanda serve a mettere la decisione  nella giusta prospettiva. Ci sono scelte che facciamo per noi stessi, per aumentare il nostro grado di felicità. Altre sono chiaramente fatte a favore di qualcun altro. Nella seconda ipotesi esserne coscienti è determinante perchè “gli altri” per cui compiamo delle scelte non hanno tutti la stessa importanza nella nostra vita. Compiere scelte a favore di un parente, di un figlio\a, di un amico piuttosto che verso qualcuno di transitorio nella propria vita non è la stessa cosa; nulla impedisce di farlo ma almeno esserne coscienti ci fa vedere la scelta dalla giusta prospettiva.

TERZO STEP

Qual’è la miglior versione di me stesso? In un mondo perfetto come sarei, cosa farei e con chi? La decisione che devo prendere mi allontana o mi avvicina a questa versione di me?

QUARTO STEP

Che emozioni provo? Proiettare me stesso a decisione presa come mi fa stare? Cosa mi dice l’intuito? A volte percepiamo delle cose senza aver già elaborato un pensiero strutturato in merito. E’ la mente percettiva, un prodotto dell’inconscio, che non crea strutture logiche di causa – effetto- come la mente associativa- ma che sente, intuisce e così ci fa allontanare o avvicinare rispetto ad una decisione da prendere.

PER CHI TEME L’ERRORE

L’unico vero errore è l’inerzia. La caratteristica propria dei viventi è che questi si muovono, tutti, secondo il loro ritmo. L’immobilità è una caratteristica mortifera. Certo occorre sapienza e prudenza e minori sono le sconfitte che ci diamo da soli meglio è…eppure anche l’errore ha una sua funzione nella vita umana, specie quello fatto in buona fede (senza della quale si può parlare tranquillamente di cattiveria, dimensione ovviamente da evitare totalmente);

Si evolve anche sbagliando, capendo, rettificando, facendo ammenda quando serve e ripartendo ancora.

GUTTA CAVAT LAPIDEM

LA PROSPERITA’ ED IL PENSIERO

La goccia perfora le pietre, lentamente e con costanza.

Già durante il periodo classico lo si aveva ben intuito semplicemente osservando la natura, cioè come il costante e martellante cadere di una goccia d’acqua sulla roccia portasse alla fine alla modifica di quest’ultima, da sempre piuttosto percepita come resistente e immodificabile. La ripetitività di un gesto, di un’intenzione, unita quindi ad un’adeguata motivazione, può produrre effetti considerevoli.

Da notare, pur sottaciuto ed implicito allo stesso proverbio, è il focus posto sulla grazia dell’azione da compiere; non vengono suggerite azioni ecclatanti, impressionanti o forti ma piuttosto di non lasciarsi distrarre dai propri desideri, di non demordere anche quando momentaneamente non si vedono i risultati.

Due, tra i vari, possono essere i potenziali problemi che limitano la realizzazione dei propri sogni, delle proprie speranze.

  1. LA NEBULOSITA’. Vivere in uno stato di foschia interiore, ovvero il non riuscire a pensare oltre all’immediato. Ci sono fasi di vita in cui si aspetta con trepidazione la realizzazione del futuro e altre in cui viene più facile adeguarsi alla realtà, pur percepita come limitante o non pienamente aderente alle proprie aspettative. Ci si accontenta, magari nel passato si è anche pagato il prezzo di qualche aspirazione mal riuscita e inizia a farsi largo, nei pensieri e nelle emozioni, la convinzione che è meglio continuare a ripetere il già noto (anche se è in parte frustrante) perchè più sicuro. La nebulosità può essere però ancor più sofisticata: si conosce – circa – quello che si auspica per la propria vita e lo si riconosce anche come realistico ma non si analizzano gli step intermedi (necessari) e si rimane così solo con la sensazione di dover affrontare un gigante. La conoscenza dei passaggi intermedi è fondamentale sia perchè si riesce ad avere il controllo su tempi più brevi sia perchè questi offrono, quando realizzati, l’appagamento sufficiente per procedere oltre.
  2. IL TEMPO. Posto anche il fatto d’essere riusciti a darsi la chiarezza interiore necessaria, sia sulle speranze che sui passaggi intermedi, si deve affrontare l’attesa, più o meno lunga. La mente non conosce il ritmo del tempo, sa rendere presente, a livello emotivo e percettivo, anche cose lontane nel passato e questa sua caratteristica (talvolta patologica) potrebbe ingannare; come il passato (pur remoto) a certe condizioni sembra essere dietro l’angolo così si pensa che anche il futuro (foriero dei nostri sogni) sia altrettanto vicino.E’ vero che spesso, al termine di un qualche percorso, si ha la sensazione che il tempo sia volato ma, se non ci si inganna dalla percezione mentale del tempo, è altrettanto vero che lo spazio temporale è davvero una dimensione estesa. Per fortuna. Occorre allora tenere ben presente, senza ingannare se stessi, che spesso ci sono dei tempi precisi e nel percorrerli tanto vale gustare ogni momento. Spesso nei media e nelle varie narrazioni si presta attenzione a chi ha cambiato la sua esistenza in pochi passaggi (quanti film e libri si basano su questo? Ma in fondo, a pensarci, la stessa promessa del gioco d’azzardo, si basa proprio su questo principio: Bruciamo tutte le tappe intermedie e con loro la fatica di dover progettare e attendere; basta solo trovare il sistema giusto) ma la verità per i più è un altra. Passo dopo passo si arriva alla meta. L’importante è guardarsi attorno e magari essere in buona compagnia.

Per raggiungere i propri obiettivi è necessario conoscerli e talvolta darsi delle mete intermedie. Occorre predisporre tutte le condizioni. Ci vuole tempo, perseveranza e un atteggiamento interiore positivo che sappia gustare il momento presente e le persone con cui lo si condivide.

Alla fine per qualcuno la soddisfazione del percorso fatto è pari al conseguimento della meta: Gutta cavat lapidem!

S.A.I.N. COME NON FARSI TRAVOLGERE DALLE EMOZIONI NEGATIVE

Ecco un metodo cognitivo per riuscire a gestire alcune emozioni che possono turbare le nostre giornate.

S.A.I.N. è acronimo ideato da Micheal Stone che fu un maestro di Mindfulness negli USA e che ha ispirato moltissime persone lungo la sua vita.

S.A.I.N. non è nulla di magico ma solo un metodo per pensare con ordine; quando siamo afferrati da emozioni fuori controllo infatti perdiamo in primo luogo proprio la capacità di rimanere in armonia e ben sintonizzati sui nostri pensieri e per questo allora un criterio, una guida per pensare step by step, può rivelarsi utile.

Capitano degli episodi attivanti che poi magari ce li portiamo appresso per ore o giorni percependo così un senso di disagio, una vaga tristezza e una perdita generale dell’energia, della speranza e della capacità di reagire prontamente: S.A.I.N agisce proprio su tutto ciò.

Ovvio, non è una panacea per ogni disagio, anzi se uno stato emotivo negativo si prolunga per più di qualche settimana è opportuno intraprendere azioni di supporto dedicate.

S.A.I.N. è un ordine nella sequenza dei pensieri per identificare ciò che è successo di attivante e per averne un maggior controllo.

Ecco di seguito la procedura:

STOP (S). Fermati. Non fuggire da ciò che provi. Accorgiti che c’è qualcosa che ti sta parlando proveniente dal tuo mondo emotivo ed esperienziale. Non far finta di niente e non liquidare il tutto come una nuvola passeggera ed insignificante. Fermati e permettiti di avere un tempo dedicato a capire cosa accade.

ACCETTA (A). Sta succedendo! Nella vita, anche nella tua, non splende sempre il sole. Ci sono momenti lenti che ci appesantiscono un po’. Fa parte dell’esistenza umana di tutti, anche della tua. In realtà questi momenti,se accolti e accettati, possono diventare delle opportunità di consapevolezza e di forza maggiore.

INVESTIGA (I). Cos’è che mi ha fatto cambiare così fortemente la mia energia vitale. Cos’è capitato? Forse è stata l’emersione di un ricordo? Una situazione non gestita nel migliore dei modi? Il comportamento di qualcun’altro che ho percepito come minaccioso verso la mia integrità? Và con la memoria all’ultimo momento in cui ricordi te stesso più energico e felice e guarda, investiga, su ciò che è accaduto dopo e sui significati dell’intera vicenda accaduta.

NON IDENTIFICARTI (N). Tu non sei solo questa emozione. Rivela probabilmente un tuo lato debole, esposto e sensibile ma sei molto di più. La tua storia te lo dice, l’impegno che hai profuso nella tua vita, gli obiettivi raggiunti e quelli che stai desiderando. Il “Non Identificarsi” significa quindi compiere un azione razionale e di consapevolezza che sappia tener vicino a sé gradi maggiori di verità personali senza rimpicciolirsi ad un’emozione ora molto percepita ma comunque transitoria.

E’ vero, nella vita ci sono delle nuvole transitorie, delle giornate storte che poi passano da sole. Eppure anche queste piccole cose possono rivelare chi siamo e farci splendere ancor di più.

SOLITUDINI. NON SEMPRE SERVE SCAPPARE

Beata solitudo Sola Beatitudo.

Beata Solitudine Unica Beatitudine.

Questo era un motto latino che, con un gioco di parole, voleva esprimere l’importanza di una solitudine viva, sorgente di benessere e di nuovo equilibrio.

Eppure, per molte persone, la solitudine è motivo di sofferenza, non di beatitudine.

E non sanno come superarla.

Attorno a noi notiamo persone particolarmente predisposte alla creazione di rapporti significativi con gli altri, mentre altre li vivono con disagio. E’ certamente un tratto del carattere avere una maggior predisposizione a creare legami ma non tutto dipende da quello. Come si abita la propria interiorità è determinante in questo.  Evidentemente poi esistono delle solitudini patologiche ma non è l’intento di questo articolo approfondirle. Scriverò piuttosto di socialità, della capacità di stare assieme e di come poterla migliorare.

Socializzare infatti è un arte e se non è spontanea può essere comunque appresa e migliorata.

Viviamo in un mondo connesso nel quale, a portata di click, le persone facilmente possono interagire tra loro eppure, oggi come non mai, molti vivono una solitudine che prima o poi si può trasformare in un vero e proprio isolamento percepito.

Le grandi strutture ed istituzioni che precedentemente avevano garantito la strutturazione del concetto di comunità sono nei fatti collassate su sé stesse e molti hanno dovuto cercare delle alternative, solo che non sempre si sono rivelate pienamente soddisfacenti.

Pur offrendo molte opportunità relazionali, per esempio, lo spazio web permette talvolta la creazione di rapporti virtuali che non si trasformano in incontri veri e propri, relegando così le persone nella rete. Si ha allora l’illusione momentanea di essere assieme a qualcuno; spesso però questo qualcuno sparisce così velocemente come era apparso..

Il mondo del lavoro inoltre acquisisce sempre maggiori dinamiche competitive interne per cui il collega più che un alleato che può anche diventare amico ma viene percepito come un competitor.

Anche la stessa difficoltà ad accedere al mondo del lavoro fa percepire le persone come escluse e non adeguate, quindi sole.

Sembra una descrizione sociale a tinte scure; eppure si possono anche notare dei segni di rinascita che si spera possano diventare sempre più coinvolgenti. Le persone sanno ancora fare gruppo, costituirsi comunità, specie dinanzi a crisi sociali e naturali.

Tutti abbiamo davanti agli occhi alcuni gesti d’altruismo e di pro-socialità riportati dai media che ricordiamo come ammirevoli, penso ad esempio alla generosità dei tanti che si sono impegnati in prima persona per le ricostruizioni a seguito dei terremoti che hanno ferito la nostra nazione o ai tanti, giovani e non, impegnati nel volontariato.

Dinanzi alle necessità e alle sfide percepite come comuni sappiamo aggregarci e tirar fuori il meglio di noi per il solo fatto che c’è una motivazione esterna, laterale alla socialità.

Molti oggi osservano le persone perse (o meglio schermate, protette) dentro ai loro smartphone. Molti docenti ed educatori sottolineano come sia diventato particolarmente complesso interagire con i giovani, parlare con loro, sentire le loro opinioni.

Alcuni poi raccontano come effettivamente sia complesso incontrare persone nuove per stabilire rapporti duraturi.

Apparentemente siamo più soli.

Ma la realtà è che è sono solo cambiati i criteri d’accesso alle relazioni. Rispetto ad altri tempi non esiste più la socialità fine a se stessa. Stiamo assieme tendenzialmente solo per un motivo comune (anche virtuoso), meglio se esplicitato nelle intenzioni.

In altre epoche ci s’incontrava solo per il fatto di appartenere allo stesso gruppo, alla stessa comunità, al medesimo quartiere o paese. Ci si conosceva da generazioni. Si vivevano gli stessi ambienti e le possibilità erano comunque minori.

Il crollo dell’appartenenza comunitaria, la mobilità disponibile e la difficoltà ad aderire a strutture relazionali ed istituzionali totalizzanti, dopo il disincanto attuale, creano un appartenenza meno scontata e ora doverosamente scelta o meno.

Per questo una buona socialità prevede una sana (beata) solitudine; in quel momento, precedente alla relazione, possiamo definire noi stessi, i nostri valori, obiettivi e scopi e così entrare poi in contatto con l’altro da sé con le giuste motivazioni ed energie.

Questo tipo di solitudine è necessaria. E’ la solitudine di chi sta pensando, rielaborando e capendo. E’ la solitudine di chi entra in sè stesso, nella propria mente e cuore, e contempla i cambiamenti che la vita ha operato nella propria visione del mondo.

E’ la solitudine di chi poi sa incontrare l’altro avendo coscienza di sè.

E’ la solitudine di chi vuole guardarsi attorno e consapevolmente scegliere se aderire a qualcosa o a qualcuno, anche nei modi e nei tempi.

Senza questa solitudine precedente si procede a caso; magari può risultare comunque efficace ma, quando così non accade, i lividi lasciati da un approccio fortuito alle relazioni possono divenire rilevanti e anche difficili da sanare.