L’ALTRO APPARENTE

“Un giorno la vita ha iniziato a ridergli in faccia, e non ha più smesso” P. Roth, Pastorale Americana

E’ lapidaria ed essenziale la frase che Roth dà nel descrivere uno dei protagonisti della sua opera Pastorale Americana.

Senza entrare nel merito del romanzo, si sta parlando di un uomo- lo Svedese- giusto, impegnato, affascinante, dedito alla famiglia e al lavoro, ammirato da tutti come una celebrità locale, che fa i conti con la vita capovolta per via di scelte non sue -subite piuttosto- violente e annichilenti orchestrate da sua figlia.

Quella figlia crescita in una famiglia per lo meno adeguata, benestante e rispettata sarà la causa del suo fallimento.

E l’enigma sulle motivazioni e sulla reale identità della figlia “una figlia fuggitiva che avrebbe dovuto essere l’immagine perfezionata di sé stesso, come lui era l’immagine perfezionata di suo padre, e suo padre l’immagine perfezionata del padre di suo padre…” attanaglieranno l’intera vita dello Svedese, Seymour Levov.

Il romanzo potrebbe essere commentato sotto moltissimi aspetti e porta con sé molti spunti di carattere psicologico ma ciò che interessa rispetto a quest’articolo è l’esperienza emozionale dello stupore dinanzi al cambiamento delle persone, al punto da far sembrare il rapporto precedente come un fenomeno apparente, l’altro come Altro Apparente.

Come le ricerche indicano esiste una forte correlazione tra relazioni soddisfacenti, qualità della vita e salute per cui risulta particolarmente importante riuscire ad orientarsi in un argomento così esposto a mutamento.

Le persone infatti cambiano, e anche tanto.

Potremmo quasi azzardare a definire il loro (nostro) mutamento come una variazione ontologica.

Infatti se è vero che a costituire l’essenza di una persona è proprio ciò che desidera, ciò verso cui tende, al mutare del desiderio potremmo, per estensione semantica, definire questo mutamento come ontologico, ovvero legato alla matrice del suo essere.

La persona coincide con il suo desiderio e lo supera. Attorno al suo desiderio, anche inconsapevolmente, si sviluppa la sua personalità ed il suo ruolo sociale.

Al mutare del suo desiderio, anche radicale, risulta ovvio che a questo coincida un mutamento della sua identità.

Ma chi assiste esternamente a ciò può arrivare a considerare questo processo come un cambiamento di chi prima ben si conosceva e che ora sembra forestiero, al punto da considerare “l’Altro già Conosciuto” come Altro Apparente.

Ma desiderare, sognare e tendere verso qualcosa per raggiungere il suo appagamento necessita sempre una dinamica evolutiva, quindi trasformativa.

Talvolta inoltre è la resa a cambiare l’identità; il desiderio non è raggiuingibile- l’assenza di questi entra così in scena, con tutte le sue capacità malinconiche e depressive.

In questo caso, per difetto desiderante, ci troveremo comunque davanti ad un qualcuno che non è più quello di prima.

Certo infatti è che, in tutto questo trasformismo del desiderio, la persona che siamo o che abbiamo di fronte assume caratteristiche diverse, così tante talvolta da divenire quasi irriconoscibile.

Ecco allora la comparsa delle crisi relazionali; amicizie che si allontanano, amori che finiscono e ruoli che vengono rinnegati.

La nostra mente tendenzialmente procede per economia, ci disturba dover reimpostare una relazione, il modo in cui vediamo l’Altro o addirittura noi stessi.

Così si compiono delle scelte a basso costo psichico: tagliare i rapporti con chi si palesa diversamente (così mi rimane l’idea, il ricordo almeno, di ciò che l’altro è stato senza dovermi confrontare con ciò che ora è diventato) oppure se il cambiamento riguarda noi possiamo scegliere di marcire nella posizione esistenziale precedente pur di non dover affrontare la fatica – spesso prosciugante ma poi sempre liberante- dell’evoluzione.

Cosa rimane dunque?

Come fare per mantenere un minimo di coerenza relazionale ed esistenziale con gli altri e, specialmente, con noi stessi?

Esistono infatti delle relazioni che superano il divenire del desiderio a cui si rimane legati nonostante tutto.

Ci sono persone che, pur facendo mutare enormemente la loro vita, mantengono una certa qual costante identitaria.

Questo accade quando si ha avuto l’opportunità d’intuire ciò che J. Lacan chiama “La Cosa” e S. Freud “das Ding”; un nucleo originario e irraggiungibile, talvolta struggente, che si sottrae alle logiche della necessità, dell’evoluzione interiore stessa e della realtà, ma che pervade l’essere nella sua totalità.

E’ la fonte stessa del Desiderio. Il nucleo vibrazionale da cui procedono tutti gli altri aneliti di vita. E’ la nostalgia originale di un quid non strutturato ne strutturabile.

Quando nel volto dell’altro -o nello specchio- cogliamo e condividiamo “La Cosa”, pur nel mutamento, troviamo l’unità nel cambiamento, la costante nella variazione.

L’ALTRO TRAUMATICO

Il trauma è una ferita, una rottura rispetto al senso di continuità che pensavamo dovesse esserci.

Il trauma è improvviso, inaspettato e talvolta spietato.

Chi lo vive ha la percezione della propria innocenza, dell’arbitrarietà del fato, della crudeltà della storia.

Si impone, obbliga a considerarlo e fa soffrire.

La caratteristica dei traumi psicologici è che sono per lo più legati alle relazioni.

Ovvero sono io rapporto con un Altro, che sia persona, situazione o condizione dell’essere.

In fondo l’intera descrizione stadiale dello sviluppo umano postulato da Freud e poi ulteriormente spiegato, ampliato e reso ancor più comprensibile da altri grandi psicoanalisti a lui successivi, mostra come la crescita, la pienezza sperata e la maturità siano causate da delle discontinuità che emotivamente sono percepite come destabilizzanti e traumatizzanti.

Quindi il trauma ci appartiene. Senza quest’esperienza, che nella sua pienezza dev’essere pensata e compresa da adulti, non diventeremo mai pienamente ciò che siamo o ciò che potremmo essere.

Il trauma ha intimamente a che fare con il Noi; nessuno si traumatizza da solo ma bensì vi è sempre in gioco il rapporto esistente con l’Altro da me – ripeto – inteso sia come persona che come oggetto/condizione esistenziale.

Infatti anche un allucinazione o un delirio riguarda comunque la persona in rapporto con un Altro – enigmatico e persecutorio – che magari pur non esiste ma che, nella mente del delirante, è comunque percepito come un qualcuno che è oltre alla sua stessa identità.

O nelle dipendenze, sia a quelle legate all’utilizzo specifico di sostanze che a quelle relative a comportamenti che si vorrebbero evitare ma dai quali sembra non esserci scampo, la percezione è che ci sia una parte Altra , più potente della volontà e dell’autoconservazione, che comanda arbitrariamente e dispoticamente la vita.

Neanche i momenti forse dove il trauma è apparentemente solitario come gli incidenti è in realtà così perché poi si teme il ripetersi di una situazione o i mezzi diretti che l’hanno causata. Quindi è sempre Altro rispetto al soggetto.

Per esempio la paura di guidare, di prendere l’autostrada, di stare soli in auto, di prendere un aereo o di tornare in sella sono tutti segni di un qualche trauma -vissuto anche individualmente- ma che riempie la scena mentale di una certa invasività contraria alla volontà della persona e quindi percepita come parte estranea: l’Altro.

Ed è un Altro che chiede – reclama- di essere ascoltato. Non se ne può fare a meno.

Per qualche tempo si possono avviare delle strategie di evitamento ma è evidente che nella maggior parte dei casi sono dinamiche che non possono continuare nel tempo.

Si sta vivendo il trauma, un punto di rottura, ma questi è anche una fase di cambiamento.

Lungo l’articolo abbiamo quindi notato come il trauma abbia sempre a che fare con l’Altro, sia reale che fantasmatico.

L’Altro mentale, che abita l’animo, che si fa percepire e conoscere.

L’Altro assente, giudicante e perturbante.

Ma l’Altro sa anche essere motivante, riflettente e vero.

Sa presentare parti di mondo ignote, dimensioni dell’essere non ancora afferrate.

L’Altro è trauma ma può anche essere balsamo.

L’ABBANDONO

COME VIVERLO E COME EVITARLO (SE POSSIBILE)

Subire un abbandono o abbandonare qualcuno o qualcosa (come un ideale, un gruppo, un senso d’appartenenza etc.) è una delle esperienze più radicali che si possano vivere.

Ovviamente l’essere abbandonati è più sconcertante perché, percependo un rifiuto, viene così implicitamente esaltata una qualche inadeguatezza (o presunta tale) che può far sorgere talvolta anche un certo senso d’ingiustizia.

Ci si ritrova così passivi ed esposti ad eventi sui quali si ha la sensazione d’avere uno scarso controllo.

Inoltre l’essere abbandonati è spesso improvviso, lapidario e desertificante.

Che l’abbandono subito sia una persona che se ne va dalla nostra vita o un esclusione da una dinamica nella quale prima ci sentivamo partecipi rappresenta comunque una perdita nella nostra identità, di chi siamo nel mondo, dato che è anche lo sguardo dell’altro a raccontarci e a confermare chi siamo.

E’ questo un vuoto, una ferita, una mancanza di continuità dell’essere che con il tempo va necessariamente rimarginata e interiorizzata.

Anche abbandonare però non è sempre facile.

Il luogo comune, il pensiero di molti, fa quasi intendere che chi abbandona in realtà sia la parte più forte o che abbia almeno una situazione migliore alla quale approdare. Alcune volte è effettivamente così, ma talvolta, andando oltre la superficie delle cose, vi è altresì un vissuto sofferto, un sentirsi fuori luogo, straniero in patria, estraneo in casa e sconosciuto a chi ti è vicino.

Perché allora accade l’abbandono?

Lo sguardo dell’altro ci racconta e conferma chi siamo ma occorre anche affermare che certi cambiamenti nell’identità di una persona corrispondono necessariamente ad un mutamento relazionale.

E’ una chimera pensare all’identità come ad un qualcosa di granitico, irremovibile e sempre uguale a sé stessa.

Il tempo, le varie vicende vissute e patite, i livelli di consapevolezza raggiunti producono inevitabilmente e drammaticamente un nuovo modo di percepirsi a cui solo il soggetto protagonista, solo ciascuno per sé, può dare pienamente un senso d’unità.

Dentro a questo fluire di eventi cambiamo e con noi mutano le nostre esigenze esistenziali, tra cui le relazioni.

Certo, esistono dei principi etici a cui ciascuno può e deve far riferimento che effettivamente possono moderare lo strappo dato dall’identità sorgente ma a condizione di poter affermare che non è tanto la sfida del tempo che passa a minacciare una relazione ma quanto il non riconoscersi più come l’altro mi vede.

Per questo serve coscienza di sé e magari, se davvero si crede che la relazione possa sopravvivere, non vivere tanto nell’illusione allucinata del “ti conosco già” ma piuttosto aprirsi , curiosamente e creativamente, verso al nuovo che l’altro da me è diventato.

Non è tanto quindi un riscoprire l’altro (azione che inevitabilmente si radica nel passato ) ma piuttosto il desiderio conoscere quel qualcosa di nuovo che ora lo abita per poter così generare una linfa nuova nel presente della relazione.

DISTANZIAMENTO: DAL PROSSIMO AL PROSSIMALE

Distanziamento: dal prossimo al prossimale

Ormai conosciamo tutti cosa significhi il distanziamento; l’esperienza del Covid-19 ci ha fatto percepire, tra le varie, la portata esistenziale dello “stare lontani.”

In realtà questa è un’esperienza che purtroppo molte persone avevano già vissuto a causa di alcune patologie, sia di carattere mentale che fisico.

Oggi invece tutti la conoscono.

Distanziamento significa sia il doversi allontanare, mantenendo alcuni metri di distanza dall’altro, ma anche e specialmente dover iniziare a considerare l’altro come un potenziale pericolo per la propria salute.

Tornano così alla memoria le drammatiche parole  di E. Lévinas: “Il volto è ciò che non sì può uccidere o, almeno, ciò il cui senso consiste nel dire «tu non ucciderai» […] Il «tu non ucciderai» è la prima parola del volto, e si tratta di un ordine. Nell’apparizione del volto si trova un comandamento, come se mi parlasse un maestro. Nello stesso tempo, tuttavia, il volto di altri è spoglio: è il povero per il quale io posso tutto e al quale devo tutto.”

In questi giorni guardiamo all’altro e diciamo a noi stessi e a lui “tu non ucciderai” perché in noi abita qualcosa di prezioso: la vita.

La minaccia, il pericolo derivante dall’incontro, prima del distanziamento era un fenomeno raramente vissuto dalle persone e accadeva solo in situazioni limite; oggi invece la si percepisce in noi e nello sguardo dell’altro.

Ciascuno, inconsapevolmente e incolpevolmente, diventa in potenza “homo homini lupus ” (uomo  lupo per l’uomo), citando Thomas Hobbes.

La stessa comunicazione è andata poi invertendosi: oggi la gestualità della vicinanza, dell’affetto, della cura è paradossalmente il suo opposto. “Vuoi bene a qualcuno? Ti interessa incontrare e mostrare benevolenza?” – ci dicono- “ Bene! Stagli distante, non toccarlo e non respirare la sua aria!”

L’affetto si dimostra allontanandosi; peccato che la nostra struttura psicofisica sia fatta per l’esatto opposto.

Sono tornati in auge così dei surrogati relazionali come la virtualità, le videochiamate e le conference call ma è evidente che queste non hanno ancora la capacità di sostituirsi alla realtà effettiva e concreta, per quanto siano utili e necessarie. Ne percepiamo infatti il limite strutturale. L’altro  è presenza nello spazio, è movimento, energia toccata e profumo percepito. La presenza dell’altro non può accontentarsi solo della vista e dell’udito..

E’ quindi un momento assolutamente particolare. Ovviamente ci sono molte buone ragioni per essere a disagio, anche per il limite di spazio vitale disponibile, eppure vediamo come ad una essere posto in dubbio per molti non sono solo le cose pratiche della vita, che sono in questo tempo limitate, ma piuttosto parti della propria identità.

La nostra identità, ovvero chi diciamo di essere, si crea e si modifica lungo tutto l’arco della vita, pur con intensità diverse, proprio a causa dalla relazione con gli altri, inoltre è mediamente dinamica, si adatta e cambia, pur mantenendo delle costanti fondamentali, secondo le circostanze vissute, per esempio a casa non siamo gli stessi che al lavoro.

Per dirla sinteticamente non esiste l’Io senza il Noi.

Solo che il Noi ì“Il prossimo” oggi è diventato “Prossimale”, ovvero un qualcuno più pensato  che incontrato, più progettato per il futuro piuttosto che un individuo con il quale si condivide il presente.

Limitare la disponibilità relazionale ha quindi inevitabilmente delle ricadute sulla nostra identità, talvolta anche patologiche innescando così smarrimento, ansia, depressioni, dipendenze, crisi coniugali ed esistenziali.

E’ così, oltre magari alla noia o alla preoccupazione per il lavoro, in molti si trovano bloccati con sé stessi. E non è detto che sia una bella compagnia perché in assenza del Noi è comunque non completa..

J. P. Sartre diceva: “ Se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia”.

Dicevamo che l’Io non esiste pienamente senza il Noi e che per sua natura è dinamico.

Oggi invece ci dobbiamo accontentare di un Io maggiormente statico, che trae beneficio dal percorso di vita  sin qui fatto e che può nutrirsi principalmente solo di quello che è già stato.

Se abitare sé stessi oggi  è fonte di disagio significa che ciò che avevamo acquisito di noi prima del distanziamento era per certi versi limitato, incompleto se non addirittura falso.

Per questo, già da ora, è scoccato il tempo della verità. La verità di chi siamo s’impone, non ci sono fughe anestetizzanti. Ci siamo noi. L’atteggiamento di chi continua a proiettarsi oltre il distanziamento ( anche se è legittima la speranza della normalità, ovviamente) può produrre frustrazione ma anche curiosità.

Nella vita ordinaria, essendo l’Io molto dinamico, alcuni suoi aspetti, sia luminosi che tenebrosi, possono essere mascherati, correre via senza essere visti. La staticità di questi giorni ,unita alla curiosità, ci prepara allo stupore della scoperta che può permettere di ampliare la conoscenza che abbiamo di noi stessi.Così questo non sarà stato solo un tempo sospeso e passivo ma anche creativo e fondativo.

SOLITUDINI. NON SEMPRE SERVE SCAPPARE

Beata solitudo Sola Beatitudo.

Beata Solitudine Unica Beatitudine.

Questo era un motto latino che, con un gioco di parole, voleva esprimere l’importanza di una solitudine viva, sorgente di benessere e di nuovo equilibrio.

Eppure, per molte persone, la solitudine è motivo di sofferenza, non di beatitudine.

E non sanno come superarla.

Attorno a noi notiamo persone particolarmente predisposte alla creazione di rapporti significativi con gli altri, mentre altre li vivono con disagio. E’ certamente un tratto del carattere avere una maggior predisposizione a creare legami ma non tutto dipende da quello. Come si abita la propria interiorità è determinante in questo.  Evidentemente poi esistono delle solitudini patologiche ma non è l’intento di questo articolo approfondirle. Scriverò piuttosto di socialità, della capacità di stare assieme e di come poterla migliorare.

Socializzare infatti è un arte e se non è spontanea può essere comunque appresa e migliorata.

Viviamo in un mondo connesso nel quale, a portata di click, le persone facilmente possono interagire tra loro eppure, oggi come non mai, molti vivono una solitudine che prima o poi si può trasformare in un vero e proprio isolamento percepito.

Le grandi strutture ed istituzioni che precedentemente avevano garantito la strutturazione del concetto di comunità sono nei fatti collassate su sé stesse e molti hanno dovuto cercare delle alternative, solo che non sempre si sono rivelate pienamente soddisfacenti.

Pur offrendo molte opportunità relazionali, per esempio, lo spazio web permette talvolta la creazione di rapporti virtuali che non si trasformano in incontri veri e propri, relegando così le persone nella rete. Si ha allora l’illusione momentanea di essere assieme a qualcuno; spesso però questo qualcuno sparisce così velocemente come era apparso..

Il mondo del lavoro inoltre acquisisce sempre maggiori dinamiche competitive interne per cui il collega più che un alleato che può anche diventare amico ma viene percepito come un competitor.

Anche la stessa difficoltà ad accedere al mondo del lavoro fa percepire le persone come escluse e non adeguate, quindi sole.

Sembra una descrizione sociale a tinte scure; eppure si possono anche notare dei segni di rinascita che si spera possano diventare sempre più coinvolgenti. Le persone sanno ancora fare gruppo, costituirsi comunità, specie dinanzi a crisi sociali e naturali.

Tutti abbiamo davanti agli occhi alcuni gesti d’altruismo e di pro-socialità riportati dai media che ricordiamo come ammirevoli, penso ad esempio alla generosità dei tanti che si sono impegnati in prima persona per le ricostruizioni a seguito dei terremoti che hanno ferito la nostra nazione o ai tanti, giovani e non, impegnati nel volontariato.

Dinanzi alle necessità e alle sfide percepite come comuni sappiamo aggregarci e tirar fuori il meglio di noi per il solo fatto che c’è una motivazione esterna, laterale alla socialità.

Molti oggi osservano le persone perse (o meglio schermate, protette) dentro ai loro smartphone. Molti docenti ed educatori sottolineano come sia diventato particolarmente complesso interagire con i giovani, parlare con loro, sentire le loro opinioni.

Alcuni poi raccontano come effettivamente sia complesso incontrare persone nuove per stabilire rapporti duraturi.

Apparentemente siamo più soli.

Ma la realtà è che è sono solo cambiati i criteri d’accesso alle relazioni. Rispetto ad altri tempi non esiste più la socialità fine a se stessa. Stiamo assieme tendenzialmente solo per un motivo comune (anche virtuoso), meglio se esplicitato nelle intenzioni.

In altre epoche ci s’incontrava solo per il fatto di appartenere allo stesso gruppo, alla stessa comunità, al medesimo quartiere o paese. Ci si conosceva da generazioni. Si vivevano gli stessi ambienti e le possibilità erano comunque minori.

Il crollo dell’appartenenza comunitaria, la mobilità disponibile e la difficoltà ad aderire a strutture relazionali ed istituzionali totalizzanti, dopo il disincanto attuale, creano un appartenenza meno scontata e ora doverosamente scelta o meno.

Per questo una buona socialità prevede una sana (beata) solitudine; in quel momento, precedente alla relazione, possiamo definire noi stessi, i nostri valori, obiettivi e scopi e così entrare poi in contatto con l’altro da sé con le giuste motivazioni ed energie.

Questo tipo di solitudine è necessaria. E’ la solitudine di chi sta pensando, rielaborando e capendo. E’ la solitudine di chi entra in sè stesso, nella propria mente e cuore, e contempla i cambiamenti che la vita ha operato nella propria visione del mondo.

E’ la solitudine di chi poi sa incontrare l’altro avendo coscienza di sè.

E’ la solitudine di chi vuole guardarsi attorno e consapevolmente scegliere se aderire a qualcosa o a qualcuno, anche nei modi e nei tempi.

Senza questa solitudine precedente si procede a caso; magari può risultare comunque efficace ma, quando così non accade, i lividi lasciati da un approccio fortuito alle relazioni possono divenire rilevanti e anche difficili da sanare.

CRISI RELAZIONALE: COME NON ABITUARSI

L’essere umano ha un carattere decisamente relazionale.

E’ evidente come alcune persone siano maggiormente a proprio agio di altre nel gestire i rapporti umani, specie quelli affettivi, eppure tutti, in una qualche misura, sono in relazione con qualcun’altro.

Anche le persone che scelgono un isolamento piuttosto rigido hanno comunque da misurarsi con l’altro.

Per certe persone il riconoscimento, l’affetto esplicito e la vicinanza degli altri sono la conditio sine qua non per essere felici; altri invece sono più concentrati alla loro vita interiore, sulle emozioni che provano e sulle idee che perseguono per cui i rapporti umani- pur necessari – sembrano avere un ruolo vagamente più marginale per la ricerca del proprio benessere.

Siamo diversi. Essere in relazione con qualcuno può avere dei significati e dei tempi richiesti davvero molto variabili a seconda degli attori coinvolti.

Da questa diversità d’approccio alla vita e ai rapporti umani nascono spesso delle tensioni; anche perchè talvolta si rimane affascinati proprio dall’altro da sé, ovvero da qualcuno che ha marcate caratteristiche relazionali alternative alle proprie.

Il motivo per cui ciò accade è facilmente intuibile: in certe circostanze siamo portati a sviluppare conoscenze a noi quasi del tutto mancanti che vengono riconosciute nell’altro. E un modo inconscio che usiamo per “diventare di più” e per crescere così in ciò che percepiamo assente in noi.

Solo che talvolta, proprio questa diversità, da fonte d’attrazione diventa nel tempo origine di repulsione. Se si vive comunque il desiderio di rimanere della relazione occorre agire prontamente.

In questi casi infatti occorre mettere in atto la propria capacità di miglioramento e d’evoluzione interiore.

Riconoscere la propria fragilità (esattamente quella che ha fatto incontrare l’altro significativo rendendolo speciale) e renderla più solida, senza tradire sé stessi. Magari reciprocamente.

Per farlo, oltre che alla volontà personale, è assolutamente necessario l’accompagnamento psicologico in quanto, attraverso gli strumenti e le tecniche diagnostiche proprie della disciplina, ci si può concentrare sugli aspetti rilevanti e sui nodi irrisolti (talvolta negati o allontanati dalla coscienza) mettendo così in atto un percorso evolutivo che non disperda le proprie energie e che così permetta il miglioramento di sè.